(Adnkronos) – Littler, il più grande studio di diritto del lavoro a livello globale, ha appena annunciato i dati della quinta edizione del suo report annuale European employer survey. L’indagine, condotta su un ampio campione di 700 direttori hr e in-house lawyer europei, fornisce una fotografia delle principali tematiche che le aziende devono affrontare in questo periodo storico attraversato da una profonda trasformazione del posto di lavoro.
Appare evidente come l’evoluzione del mondo del lavoro generi una serie di nuove preoccupazioni tra le aziende, tra cui la più urgente sembra riguardare la definizione del limite entro cui è possibile richiedere il lavoro in presenza. L’edizione di quest’anno mostra una spaccatura tra il desiderio di aumentare il lavoro in presenza e la garanzia di flessibilità necessaria per attrarre e trattenere i talenti.
Alla domanda sugli attuali orari di lavoro dei dipendenti, il 30% del campione ha dichiarato di avere effettuato un completo ritorno alla presenza, mentre il 27% ha optato per una forma di orario ibrida, con più giorni di lavoro in presenza e meno da remoto. Solo l’11% vede i propri dipendenti seguire un orario ibrido con più giorni di lavoro da remoto rispetto a quelli in presenza mentre il 5% ha dichiarato che i propri dipendenti lavorano completamente da remoto.
Sulla base delle risposte fornite potrebbe esserci un trend crescente di aziende che preferisce il lavoro in presenza, come dichiarato dal 73% dei datori di lavoro che sta valutando la possibilità di ridurre il lavoro a distanza, ma questo atteggiamento si scontra con una resistenza crescente da parte dei dipendenti, riluttanti a rinunciare alla flessibilità acquisita.
Sebbene l’indagine di quest’anno registri un maggiore allineamento tra le politiche adottate dai datori di lavoro e le esigenze dei dipendenti, dichiarato dal 40% dei rispondenti, rispetto all’anno scorso dove solo il 28% evidenziava una corrispondenza dei propri modelli di lavoro rispetto alle preferenze dei dipendenti – il 42% continua a ritenere che i propri dipendenti preferiscano in misura maggiore modalità di lavoro ibride o da remote rispetto a quelle offerte.
“E’ incoraggiante osservare – commentano Carlo Majer ed Edgardo Ratti, co-Managing Partner di Littler in Italia – come quest’anno le esigenze di datori di lavoro e dipendenti siano più allineate rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Tuttavia, il fatto che le aziende stiano ancora cercando di bilanciare i pro e i contro dei modelli di lavoro a distanza, ibridi e di persona, a due anni e mezzo dalla più grande trasformazione del mondo del lavoro causata dalla pandemia, è un chiaro indice di nuove e più complesse sfide che ci aspettano nella gestione delle risorse umane”.
Visto e considerato che i datori di lavoro si muovono su una linea sottile tra l’esigenza di lavorare di persona e quella di offrire flessibilità, cresce l’importanza di valutare i vantaggi generati da modalità di lavoro da remoto – che il 79% vuole aumentare per contribuire ad attrarre e trattenere i talenti – con quelli del lavoro in presenza. I motivi principali che spingono i datori di lavoro a richiedere un maggior numero di ore di lavoro in presenza riguardano la cultura e il lavoro di squadra, tra cui una maggiore collaborazione tra team e stimolazione del pensiero creativo (54%) e un maggior impegno da parte dei dipendenti (48%), piuttosto che la produttività e i costi. Vantaggi che sono correlati a uno dei principali motivi di rinuncia del lavoro da remoto, ossia il mantenimento della cultura aziendale e del coinvolgimento dei dipendenti (53%).
“E’ naturale – continua Stephan Swinkels, partner di Littler, con responsabilità di coordinamento a livello internazionale – che chi ha provato il lavoro da remoto sia più riluttante a rinunciarvi. Questo significa che le aziende non possono non considerare la flessibilità per acquisire e trattenere nuovi talenti e dare valide ragioni per motivare il lavoro in presenza. Non è sufficiente l’intenzione di favorire una maggiore collaborazione, perché non possiamo dare per scontato che ciò avvenga solo perché le persone si trovano in ufficio: è compito dei datori di lavoro creare quest’opportunità”.
Indipendentemente dal modello di lavoro, resta alta l’attenzione a salute mentale e benessere delle risorse umane. Sebbene 9 intervistati su 10 abbiano adottato iniziative in questa direzione nell’ultimo anno, solo il 28% lo ha fatto in maniera strutturata. Inoltre, quando si tratta di offrire una soluzione al burnout, la flessibilità oraria è stata l’unica misura adottata da più della metà degli intervistati (54%), mentre azioni più concrete – come lavorare individualmente con i dipendenti per gestire i carichi di lavoro – sono ancora scelte da meno di un terzo degli intervistati.
“Occuparsi del benessere mentale e di condizioni di burnout sul posto di lavoro continua a essere una priorità per le aziende” aggiungono Majer e Ratti. “Gli orari di lavoro flessibili, ad esempio, rappresentano un passo nella giusta direzione, ma spesso non tengono conto dello stress e dei carichi di lavoro aggiuntivi che possono accompagnare il lavoro da remoto”.
La gestione dei cosiddetti ‘nomadi digitali'” – dipendenti che lavorano in un Paese diverso da quello in cui si trova la sede dell’azienda – rappresenta la vera nuova sfida. Tra le aziende che si trovano a gestire risorse in questa condizione, la stragrande maggioranza (89%) è preoccupata dei rischi legali, delle implicazioni fiscali e di altri problemi occupazionali che ne derivano. Inoltre, dalle risposte raccolte, questo fenomeno sembra in aumento con il 73% degli intervistati che dichiara di avere dipendenti “nomadi digitali”, rispetto al 61% del 2021.
“I datori di lavoro sono naturalmente preoccupati per le implicazioni che può portare questa nuova modalità di lavoro, in particolare per le aziende che hanno sede nel Regno Unito dopo la Brexit” sottolineano Majer e Ratti. “Purtroppo, le aspettative dei dipendenti non sono allineate con la realtà del sistema legale globale, in quanto per i datori di lavoro è davvero impegnativo rendere il ‘lavoro da qualsiasi luogo’ una realtà”.
Quasi la metà degli intervistati (47%) sta utilizzando o pianificando di utilizzare soluzioni tecnologiche e/o strumenti di IA per supportare le attività di recruiting e assunzione. Inoltre, il 61% di coloro che già utilizzano tali strumenti ha dichiarato di averne incrementato l’utilizzo nell’ultimo anno, sottolineando l’efficacia dell’IA e della tecnologia per attrarre nuovi talenti.
“In un mercato del lavoro così sfidante, le aziende sempre più stanno ricorrendo a soluzioni di IA per attrarre nuovi talenti convincendosi della loro efficacia” continuano. “Con l’aumento dell’utilizzo di questi strumenti, è importante adottare misure che siano conformi alla normativa e verificare che le applicazioni siano sviluppate sotto controllo legale e di compliance”.
Rispetto alle misure adottate dai datori di lavoro, mentre più della metà (54%) di coloro che utilizzano soluzioni di IA/tecnologia per il recruiting ha dichiarato di aver sviluppato un piano che identifica obiettivi specifici e verifica i risultati, meno di un terzo ha condotto una valutazione per garantire la conformità alla privacy dei dati (31%) o si è coordinato con i fornitori per condurre revisioni degli algoritmi di IA e identificare potenziali difformità (28%). In un contesto di crescente incertezza economica, l’indagine ha anche rilevato segnali di cautela da parte dei datori di lavoro europei, che tuttavia non sembrano ancora adottare misure drastiche. Circa un quarto (27%) sta esitando nell’assunzione di nuove risorse per le preoccupazioni a livello macroeconomico, mentre il 37% sta valutando o attuando riduzioni di personale.