(Adnkronos) – Terzo e ultimo giorno di votazioni in Egitto dove da domenica si svolgono le elezioni presidenziali dall’esito scontato, con la conferma del terzo mandato per Abdel Fattah al-Sisi. I seggi stamane hanno aperto alle 9 ora locale (le 8 in Italia) e chiuderanno alle 19. In crescita rispetto alle precedenti consultazioni è stata finora l’affluenza alle urne, stimata dalla Commissione elettorale al 45% dopo due giorni di votazioni. Significa che dei circa 67 milioni di potenziali elettori, finora si sono recati ai seggi oltre 30 milioni. Nelle due precedenti elezioni presidenziali, nel 2018 e nel 2014, l’affluenza fu rispettivamente del 41% e del 47% e in entrambe al-Sisi aveva vinto con il 97% dei consensi. L’affluenza alle urne dipenderà probabilmente da “quante risorse saranno destinate a corrompere o costringere le persone a partecipare”, ha affermato Timothy Kaldas, vice direttore del Tahrir Institute for Middle East Policy.
Già nelle prossime ore è atteso l’annuncio della vittoria del presidente, salvo un improbabile ballottaggio. Gli altri candidati avranno comunque diversi giorni per presentare ricorso, dato che i risultati ufficiali sono attesi il 18 dicembre. Il vincitore resterà in carica sei anni. Si tratta delle prime elezioni presidenziali da quando il referendum costituzionale, approvato nel 2019, ha aperto la strada ad al-Sisi per rimanere in carica fino al 2030.
L’Egitto arriva al voto in un momento economico delicato e in un contesto regionale di tensione altissima, con la guerra nella vicina Striscia di Gaza e migliaia di palestinesi accalcati al valico di Rafah. I contraccolpi della guerra stanno oscurando le presidenziali: la causa palestinese resta un argomento altamente infiammabile per l’opinione pubblica egiziana e il regime deve oscillare tra la fermezza nei confronti di Israele e la sua alleanza strategica con lo Stato ebraico, senza essere visto come complice delle sofferenze dei palestinesi. Non è un caso che la crisi di Gaza sia stata al centro dell’unico comizio elettorale di al-Sisi, salito sul palco il 23 novembre allo stadio del Cairo. E mentre tutte le televisioni del Paese sono sintonizzate sulle immagini della devastazione nell’enclave palestinese, il voto appare a molti egiziani come un non-evento.
Per gli analisti la guerra è stata un’utile distrazione per al-Sisi, attirando tutta l’attenzione dei commentatori politici e dell’opinione pubblica. Ha inoltre lucidato la sua immagine a livello internazionale. In questi mesi il presidente egiziano ha vestito i panni del capo di Stato corteggiato dai leader mondiali che si sono in successione recati al Cairo per chiedere i suoi buoni uffici su questioni spinose: dall’esfiltrazione dei cittadini stranieri da Gaza al rilascio degli ostaggi fino all’organizzazione della risposta umanitaria. Su quest’ultimo punto, L’Egitto critica apertamente i blocchi israeliani che ostacolano la distribuzione degli aiuti umanitari, ma mantiene uno stretto controllo sugli ingressi e sulle uscite da Rafah. Il presidente egiziano “ha tratto enormi benefici da questa situazione”, ha commentato il giornalista dissidente, Khaled Dawoud.
Secondo gli osservatori, se al-Sisi intende fare della crisi di Gaza il suo cavallo di battaglia, è anche per evitare di parlare della crisi ritenuta la sfida più grande per il Paese: il peggioramento senza precedenti dell’economia egiziana. L’Egitto con i suoi 105 milioni di abitanti sta sprofondando nel debito estero e deve far fronte ad una grave carenza di valuta forte. L’inflazione è superiore al 35% ed è ancora più alta per il settore alimentare. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha rinviato due revisioni di un programma di prestiti da 3 miliardi di dollari dopo che le autorità egiziane non sono riuscite a realizzare le riforme richieste ed alcune agenzie ritengono l’Egitto il secondo Paese al mondo con maggiori probabilità di default sul pagamento del debito, dopo l’Ucraina.
Al-Sisi attribuisce agli shock esterni, come la pandemia e la guerra in Ucraina, la causa dei crescenti problemi economici del Paese, ma gli analisti sostengono che il controllo militare su ampie fasce dell’economia, insieme alla massiccia spesa pubblica in progetti infrastrutturali – tra cui una nuova capitale da 58 miliardi di dollari nel deserto fuori il Cairo – stiano prosciugando le casse dello Stato e soffocando la crescita. Intanto la povertà è in aumento, le interruzioni di corrente sono diventate una spiacevole abitudine negli ultimi mesi, il prezzo dei dollari sul mercato nero continua a salire e molti egiziani temono un’imminente svalutazione monetaria, richiesta dal Fmi e attesa all’inizio del prossimo anno, una volta che al-Sisi avrà consolidato il suo potere.
Imparando dagli errori delle ultime elezioni presidenziali – che all’epoca furono denunciate come “una farsa” dalle organizzazioni egiziane e internazionali per i diritti umani – questa volta le autorità egiziane hanno cercato di dare una parvenza di democrazia. Se alle scorse consultazioni al-Sisi si era ‘scontrato’ con Moussa Mostafa Moussa, un architetto sconosciuto prestato alla politica, in queste elezioni compete con ben tre candidati, nessuno dei quali tuttavia appare in grado nemmeno lontanamente di impensierirlo. Il fatto, inoltre, che tutti i suoi sfidanti non siano militari ha indotto molti egiziani a dubitare sulla loro reale forza. Le forze armate, l’istituzione da cui è emerso ogni leader egiziano in epoca moderna – ad eccezione dell’ex presidente dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi, che è stato estromesso con la forza dall’esercito nel 2013 – ha dimostrato di non essere disposto a cedere il potere a un governo civile.
I tre candidati ammessi sono Farid Zahran, del Partito Socialdemocratico di sinistra e all’opposizione (forse il più conosciuto), Abdel-Sanad Yamama, che rappresenta il Partito Wafd e Hazem Omar, candidato del Partito Repubblicano Popolare. Tutti e tre i partiti hanno fatto parte del blocco pro-Sisi durante le ultime elezioni parlamentari. Omar, un imprenditore del turismo, è stato nominato da al-Sisi al Senato egiziano nel 2020. Yamama ha elogiato al-Sisi in una recente intervista televisiva e l’anno scorso ha chiesto un emendamento alla Costituzione per onorare il ruolo avuto da al-Sisi nelle proteste anti-Fratelli musulmani del 2013 che precedettero il colpo di Stato. Zahran, invece, ha criticato il governo e ha condotto una campagna per porre fine alla censura dei media. Ma è visto come una figura dell’opposizione relativamente moderata che non oltrepassa i limiti imposti dalle autorità.
Sulla regolarità del processo elettorale pesa molto il fatto che l’unico serio sfidante di al-Sisi, Ahmed al-Tantawy, ex deputato ed ex capo del partito di sinistra Karama (Dignità), sia stato costretto a rinunciare alla sua candidatura poche ore prima della scadenza dei termini. Gruppi per i diritti umani e testimoni hanno riferito che ai sostenitori di al-Tantawy sia stato impedito di entrare negli uffici dei notai per presentare le firme richieste per la sua candidatura. Secondo Hossam Bahgat, direttore dell’Iniziativa egiziana per i diritti personali, uno dei pochi gruppi per i diritti umani che continua ad operare nel paese, “delinquenti pagati” hanno aggredito i suoi sostenitori. Al-Tantawy ed i membri della sua campagna sono stati a loro volta incriminati il mese scorso con accuse ritenute da gruppi per i diritti umani come politicamente motivate. L’oppositore è libero in attesa del processo, ma decine di volontari della sua campagna restano in custodia cautelare.