Al Gemelli 120 infermieri d’origine straniera per pazienti non italiani

(Adnkronos) –
Una rete umana per non lasciare soli i pazienti stranieri, ricoverati in ospedale, che hanno difficoltà nel comunicare. E’ il progetto ‘Ohana’, un termine hawaiano che significa ‘famiglia’, promosso dalla Fondazione Policlinico universitario Gemelli Irccs di Roma. “Sono persone in carne e ossa, straniere di prima generazione, che possano veramente fare la differenza nel supportare i pazienti che vengono presi in carico al di là della cultura e della lingua. Il messaggio ai colleghi è che ‘io mi adopero per te perché facciamo parte della stessa famiglia lavorativa’. Oggi abbiamo 120 infermieri nella nostra ‘rete’ afferenti al Sitra (Servizio infermieristico tecnico riabilitativo aziendale) e provenienti dalla Polonia, dalla Romania, dal’India, dal Congo, dalle Filippine, dalla Germania, dalla Francia”. Lo spiega all’Adnkronos Salute Cristina Pistacchio, docente di Antropologia culturale della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica di Roma e coordinatrice del progetto ‘Ohana’. Nel Regno Unito il Royal College of Nursing ha realizzato una guida per aiutare i medici stranieri a capire dialetti, frasi gergali e slang dei pazienti ricoverati.  

Come nasce ‘Ohana’? “Da una intuizione, dalla partecipazione sul campo e da una considerazione – risponde Pistacchio – che noi all’interno della nostra azienda abbiamo stabilito che ogni infermiere si prende in carico un paziente di cui è il referente fino alle dimissioni. Ogni paziente ha un piano assistenziale personalizzato che ha come basi l’umanizzazione delle cure e la persona al centro. Ma se questo processo è molto impegnativo per una paziente autoctono, figuriamoci per uno straniero che non parla italiano o inglese o tutte e due. Oppure, ha avuto esperienze con la medicina tradizionale del proprio paese e si trova spaesato in un ospedale occidentale. Ecco che i nostri infermieri che hanno accettato di aiutarci nel progetto ‘Ohana’, sono distribuiti in tutti i setting ospedalieri dalle sale operatorie, all’Oncologia, alla Medicina, alla Chirurgia”.  

“Quello che facciamo – continua – è creare un ‘ponte’ che si affianca ai medici, agli infermieri e agli altri professionisti e li aiuta a comprendere le culture non autoctone. In questo modo il paziente straniero sente di avere accanto una persona che conosce la sua cultura e la sua lingua, riesce a spiegare e comunicare anche questioni delicate come la scoperta di un tumore. Le parole giuste sono necessarie alla comprensione, oltre alla malattia posso spiegarti il percorso che farai e con chi ti interfaccerai”. “Quando un infermiere riesce ad aiutare un suo connazionale, che in quel momento è ricoverato, è come se avvenisse un ricongiungimento delle loro radici – osserva Pistacchio – c’è una grande soddisfazione, si riconosce che vissuto è stato anche quello di chi ti è di fronte”. Un esempio, fra tanti, di come il progetto ‘Ohana’ è riuscito a migliorare l’assistenza “è accaduto in sala operatoria per un parto – racconta la docente – la paziente parlava solo arabo e c’era difficoltà di comunicazione in una fase delicata, ecco che abbiamo mandato un nostro infermiere e la paziente è riuscita a portare a termine il parto nel migliore dei modi. Ma questo tipo di aiuto avviene molto anche in Oncologia pediatrica e al pronto soccorso”. 

Il progetto ‘Ohana’ ha margini di miglioramento? “Al momento non abbiamo, ad esempio, infermieri cinesi o giapponesi. Ma se dovessi evidenziare un fronte su cui lavorare potrei indicare quello di estendere questa rete ad altri professionisti e competenze, penso ai medici”, conclude Pistacchio. 

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