Covid, dopo forme gravi rischio depressione e alterazioni cervello

Depressione, ansia e sindrome da stress post-traumatico, associate a vere e proprie alterazioni del cervello, visibili alla risonanza magnetica. Anche a queste conseguenze – la cui durata va ancora compresa – può andare incontro chi si ammala di Covid sviluppando forme gravi, caratterizzate da alti livelli di infiammazione. A mettere in guardia dalle sequele psicopatologiche dell’infezione da Sars-CoV-2, come motivo in più per vaccinarsi contro il coronavirus pandemico, è uno studio dell’ospedale San Raffaele di Milano, pubblicato su ‘Brain, Behavior, & Immunity – Health’ dal gruppo di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia clinica dell’Irccs, diretto da Francesco Benedetti, medico psichiatra e professore associato all’università Vita-Salute San Raffaele. 

Il lavoro sottolinea “l’importanza di seguire con attenzione il decorso dei pazienti Covid-19 anche dopo la dimissione – spiegano dall’ospedale – e conferma il fattore di rischio rappresentato da infezioni gravi, e dalle relative risposte infiammatorie, nell’insorgenza di disturbi d’ansia e dell’umore” anche in persone che non ne avevano mai sofferto. 

Lo studio ha infatti riguardato 42 persone, età media 54 anni, per due terzi uomini, ricoverate al San Raffaele per polmonite da Covid durante la seconda ondata della pandemia, dall’autunno 2020, nessuna della quali aveva mai riportato depressione o disturbo da stress post-traumatico prima dell’infezione, né aveva presentato lesioni cerebrali durante la fase acuta della polmonite. I partecipanti alla ricerca sono stati seguiti per almeno 3 mesi dopo le dimissioni, all’interno dell’ambulatorio dedicato al follow-up presso la sede di San Raffaele Turro. 

Il team di Benedetti aveva già descritto in studi precedenti la persistenza, fino a 3 mesi dopo la dimissione, di sindromi ansiose e depressive nei pazienti guariti da forme gravi di Covid-19, nonché il legame tra queste sindromi e il livello di infiammazione sistemica rilevato nella fase acuta di malattia, quando i pazienti erano ancora degenti in ospedale. 

Anche in questo caso nei 42 ricoverati è stato misurato il Sii, indice sistemico di infiammazione, che valuta tramite prelievo di sangue l’intensità della reazione infiammatoria prodotta dall’organismo per combattere l’infezione. Nei mesi successivi alla dimissione, però, oltre alla valutazione psichiatrica attraverso test standardizzati, è stato aggiunto un nuovo elemento: grazie alle tecnologie presenti al Cermac, il Centro d’eccellenza per la risonanza magnetica ad alto campo diretto da Andrea Falini, primario di Neuroradiologia, gli scienziati hanno potuto esaminare anche la connettività funzionale (il modo in cui diverse aree cerebrali comunicano tra loro), la struttura della materia bianca e il volume locale della materia grigia. “Si tratta del primo studio di questo tipo a indagare le conseguenze psicopatologiche del Covid-19”, evidenziano dal San Raffaele. 

“I dati raccolti dimostrano un’alterazione di tutti e 3 questi parametri – riferisce Benedetti – In particolare, si osserva un’associazione sia del volume della materia grigia sia dell’integrità della materia bianca, a cui si aggiunge una ridotta connettività funzionale, con i sintomi presentati nel long Covid e con l’infiammazione durante la fase acuta della malattia. Questo è in linea con quanto si osserva nei pazienti con forme depressive endogene, come la depressione maggiore o il disturbo bipolare, a ulteriore dimostrazione che l’emergere di sintomi depressivi nei pazienti sopravvissuti alle forme iper-infiammatorie di Covid-19 non deve essere sottovalutato. E’ una condizione la cui durata andrà verificata nel tempo, e che potrebbe spiegare anche i problemi cognitivi che di regola accompagnano il long Covid”. 

Al di là di Covid-19, “è noto da tempo – ricordano gli esperti del San Raffaele – che infezioni gravi, come quelle da influenza o da polmonite virale, possono precedere episodi di depressione maggiore. Il meccanismo causale alla base di questo ‘innesco’ è ancora poco chiaro, ma l’indiziato numero uno è il sistema immunitario e in particolare la risposta infiammatoria scatenata per combattere l’infezione. A confermare questa ipotesi c’è anche il fatto che depressione e infiammazione sono strettamente legate tra loro: nei pazienti con disturbi dell’umore si riscontra spesso un basso, ma persistente livello di infiammazione che non può essere spiegato da altre condizioni mediche”. 

“La pandemia Covid-19 – commenta Benedetti – ci sta permettendo di studiare il rapporto tra depressione e infiammazione come mai prima, e potrebbe aiutarci a comprendere di più di questa malattia. Allo stesso tempo, non solo ricerche come quella appena pubblicata, ma anche quanto già noto sul rapporto tra infezioni e disturbi dell’umore, dovrebbero farci tenere alta la guardia: le forme gravi di Covid-19 possono avere conseguenze a lungo termine anche dal punto di vista psichiatrico. Un motivo in più per vaccinarsi e una responsabilità per tutti noi che ci occupiamo di salute mentale”. 

(Adnkronos)