(Adnkronos) – Era il 2013 quando il primo vaccino anti-meningococco B veniva autorizzato dall’Agenzia europea del farmaco Ema, e poco dopo dall’italiana Aifa. Un traguardo che nei primi anni ’90 era considerato una missione “impossibile”. Come si è arrivati alla svolta lo racconta all’Adnkronos Salute, a 10 anni dall’ok dell’ente regolatorio Ue, lo scienziato Rino Rappuoli, il padre della ‘reverse vaccinology’, la tecnica che ha permesso lo sviluppo di un vaccino con cui sono state poi salvate, nell’arco di un decennio, milioni di vite. Galeotte furono le scoperte di un pioniere del Dna. “In quegli anni – ricorda Rappuoli, oggi direttore scientifico della Fondazione Biotecnopolo di Siena – fare un vaccino contro questo batterio era una di quelle sfide su cui tutti, anche noi, avevamo fallito. Ormai eravamo arrivati alla conclusione che avremmo avuto bisogno di una tecnologia rivoluzionaria, che allora non c’era”.
“Nel 1995, però, Craig Venter”, biologo statunitense, “pubblicò sulla rivista ‘Science’ un lavoro davvero rivoluzionario a quel tempo: era il primo genoma di un organismo vivente”. Per Rappuoli si accese una lampadina. La sua “era chiaramente una tecnologia rivoluzionaria e oggi sappiamo quanto il genoma abbia cambiato la vita, la biologia, il modo in cui facciamo tutto, ma all’epoca nessuno aveva mai visto un genoma intero”. Lo scienziato italiano fa subito le valigie. “Andai a visitare Venter negli Stati Uniti – ripercorre – e gli chiesi se avesse voluto sequenziare il genoma del batterio della meningite per vedere se questa nuova tecnologia ci poteva aiutare. Era il 1996. Lui stava già pensando che la sua prossima sfida sarebbe stato il genoma umano”, meta raggiunta nel 2000, “e non aveva gran voglia di occuparsi di un altro batterio. Voleva passare alla Drosophila”, il moscerino della frutta ancora oggi modello animale nel mondo della ricerca, e a organismi più complicati.
“Allora – prosegue Rappuoli – io gli spiegai la gravità della malattia” che colpiva i bambini e gli adolescenti con alti tassi di mortalità, “e gli dissi: se sequenzi il genoma, posso usare quelle informazioni per fare un vaccino. Dopo circa mezz’ora si convinse a fare il genoma del meningococco B. Da lì partimmo con questa collaborazione poi durata una ventina d’anni, in cui noi usavamo le sue tecnologie rivoluzionarie per risolvere dei problemi”, rebus intricati “come il meningococco B”.
E’ l’inizio della svolta. “Fu straordinario – ricorda lo scienziato italiano – perché usando il genoma in poco tempo capimmo che avremmo risolto il problema. Per dare un’idea, nel giro di 6 mesi avevamo scoperto più proteine e potenziali vaccini noi che tutti i microbiologi nella storia fino a quel momento. Era chiaro che la potenza della genomica era enorme. Da lì trovammo 100 potenziali vaccini candidati, poi scegliemmo il meglio di 30 e dopo un paio d’anni selezionammo i migliori tre, con cui abbiamo fatto poi il vaccino che è stato registrato”. Quel vaccino si chiama Bexsero* (Novartis).
“Quei componenti per fare il vaccino nessuno li avrebbe mai scoperti a breve termine con le tecniche di allora – evidenzia l’esperto – c’era bisogno di questa tecnologia rivoluzionaria, che era il genoma. E quella era ‘l’età della pietra’ della genomica. Per capire, Craig Venter – l’uomo più veloce al mondo a fare un genoma – nel 1997 ha impiegato 14 mesi per un genoma di batterio. Oggi sequenziamo migliaia di genomi in un giorno”.
Un tale impatto, come la rivelazione dei segreti della doppia elica, può averlo oggi quella che è ritenuta l’ultima frontiera, l’intelligenza artificiale? L’Ai, riflette Rappuoli, “è prorompente, perché riesce a macinare i dati che nessuna mente umana riuscirebbe neppure a immaginare e sta dando risultati straordinari, ormai è perfusa nelle tecnologie che usiamo”. Ma “l’intelligenza artificiale non trova soluzioni originali, dà soluzioni che sarebbero ovvie se uno riuscisse ad analizzare tutti questi dati, cosa che la nostra mente però non riuscirebbe mai a gestire” da sola. Quindi “la potenza è incredibile. L’Ai trova soluzioni che per la mente umana sarebbe impossibile trovare, e così velocemente. Anche se di intelligenza ha molto poco, poiché analizza tantissimi dati e dà delle conclusioni. Ma alla fine come usarli questi dati spetta sempre a noi”, puntualizza.
Oggi sicuramente la velocità con cui può arrivare a sviluppare farmaci ha messo il turbo. Tornando all’esempio del vaccino anti-meningococco B, Rappuoli che è stato perno del polo senese dedicato ai vaccini (di lunga tradizione dalla scuola di Achille Sclavo alla presenza oggi di Gsk) spiega: “La gente voleva avere vaccini contro il meningococco B dagli anni ’60. Negli anni ’70-80-90 ci sono state una lunga serie di prove cliniche tutte fallite. Finché non è arrivato il nostro vaccino. La scoperta scientifica la pubblichiamo su ‘Science’ nel 2000. Per trasformarla in un prodotto e avere la registrazione ci sono voluti 13 anni”, fra sviluppo, industrializzazione, fase 1, 2 e 3 dei trial, costruzione dell’impianto per fabbricare il vaccino, registrazione. Un’avventura complessa che, ammette, impressiona se si pensa a come i tempi si siano accorciati oggi con il vaccino anti-Covid.
La portata della sfida, del resto, è stata enorme. “Il primo aspetto è che il meningococco è un batterio che non ha due individui uguali, cambia tanto. Al confronto, il Covid è stabilissimo. Nel mondo ci sono milioni di ceppi diversi, è una sua autodifesa”, questo patogeno “ha dei meccanismi intrinsechi nel genoma per cui riesce a mettere sulla superficie qualcosa di completamente diverso in continuazione. Le molecole che si trovavano con i metodi classici funzionavano per un singolo ceppo e non per un altro”.
Per esempio, “a fine anni ’90-inizio 2000, la Nuova Zelanda era alle prese con un’epidemia paurosa da circa 10 anni. E l’Organizzazione mondiale della sanità chiese a tutto il mondo di cercare di sviluppare vaccini. Noi trovammo la soluzione, perché il ceppo della Nuova Zelanda non cambiava molto e usandolo facemmo un vaccino classico, con cui abbiamo coperto nel 2004 in breve tempo la popolazione da 2 mesi a 20 anni. E la malattia è scomparsa”. Se in Nuova Zelanda Rappuoli per questo è stato considerato come un eroe, lo scienziato spiega come quello stesso vaccino aveva un problema: “Funzionava benissimo lì ma se lo si portava in America non copriva neppure il 2% dei ceppi, in Europa probabilmente il 15%. Non era la soluzione. C’è voluta la genomica e quella che ho chiamato ‘reverse vaccinology’ per trovare la soluzione universale”, scavando nelle pieghe del Dna.