(Adnkronos) – Da tempo è al centro del dibattito scientifico internazionale la necessità di ribadire il ruolo della vitamina D, come ormone, a sostegno della salute di un’ampia fetta di popolazione per ridurre il rischio di fratture da osteoporosi e non solo. Per questo motivo che la VI Consensus internazionale sulla vitamina D, in programma a Firenze in questi giorni, vede riuniti oltre 30 tra i maggiori esperti mondiali di vitamina D. A coordinare l’evento, Andrea Giustina, primario di endocrinologia all’ospedale San Raffaele e coordinatore scientifico della Consensus dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e John Bilezikian, professore associato di medicina interna – Endocrinologia, diabete e metabolismo della Columbia University di New York.
Numerosi i temi che verranno trattati durante i lavori, tra i quali focus specialistici e linee guida vitamina D per la chirurgia bariatrica con un approfondimento sul tema vitamina D e Covid-19. “La sesta Consensus internazionale sulla vitamina D concentra i lavori sulle risposte a tre domande fondamentali sulla vitamina D: perché (darla)? Quando (darla)? Come (darla)?”, spiega Giustina. “Sono queste le domande alle quali vogliamo dare risposta, ribadendo che la vitamina D è un ormone, e, quindi, non un semplice integratore come tutte le altre vitamine e che deve quindi essere supplementato quando l’organismo non ne produce a sufficienza, secondo precise indicazioni e soglie, quali parametri da rispettare”.
La vitamina D si è dimostrata utile ed efficace in diversi ambiti a partire dalla necessità di associazione di quest’ormone nelle terapie dell’osteoporosi per tenere sotto controllo il rischio di frattura. “Il punto di partenza – continua Giustina – è misurare la vitamina D, in particolare in Paesi con una alta prevalenza di ipovitaminosi D, come l’Italia. Verificarne il livello nelle categorie dei soggetti a rischio, come ad esempio chi ha già una patologia come l’osteoporosi o il diabete, e personalizzare queste soglie rispetto allo stato di rischio osseo ed extra osseo dei pazienti”.
“Per quanto riguarda la terapia – prosegue l’esperto – la nostra posizione, è che la supplementazione sia necessaria in tutti i pazienti che hanno una reale carenza. Questo approccio supera la posizione dell’editoriale del New England Journal of Medicine ‘VitaL Findings – A decisive verdict on vitamin D supplementation’, pubblicato in estate, che parte da presupposti non convincenti. Lo studio Vital somministra la vitamina D alla popolazione generale in modo indiscriminato, senza prima selezionare i pazienti che realmente ne possono avere bisogno. Tanto rumore per nulla – osserva – perché è evidente, e lo sapevamo, che dare la vitamina D a tutti non porta nessun beneficio. Dal punto di vista clinico e della necessaria prudenza di chi lavora nell’ambito della medicina, crediamo che l’editoriale in oggetto debba essere inteso come l’avvio di un dibattito e non come un ‘verdetto’. Gruppi di studio, società scientifiche e autorità sanitarie saranno parti attive di questa discussione che, mi auguro, sarà prudente e razionale, senza semplificare necessariamente in vitamina D: sì o no”.
Ma che tipo di vitamina D è opportuno assumere? Per fare chiarezza su quale tra le molecole di vitamina D vada usata – si legge in una nota – è necessario partire dalla fisiologia, perché è importante comprendere come molecole quali colecalciferolo, calcitriolo e calcifediolo siano tutte forme di vitamina D che si trovano nell’organismo e nel sangue, con caratteristiche e destinazioni d’uso diverse. Se il calcifediolo ed il calcitriolo sono molecole utili in alcune particolari situazioni che riguardano popolazioni ristrette, quale ad esempio i pazienti con insufficienza epatica o renale, la vitamina D per la popolazione generale è colecalciferolo perché è la molecola sintetizzata dalla cute che viene esposta ai raggi solari.
“Il problema – spiega Giustina – è legato proprio alla fisiologia ed è tutto riconducibile all’organismo. Nella maggior parte dei casi all’organismo manca il colecalciferolo, perché non viene prodotto dalla pelle. Il rischio di usare vitamine D più attive come soprattutto il calcitriolo, quando non è necessario, è di sovraccaricare l’organismo”.
Fra i temi anche il ‘legame’ tra vitamina D e Covid-19: i pazienti colpiti da SarS-Cov-2 – ricorda la nota – hanno una prevalenza elevatissima di bassa vitamina D. La ricerca è quindi focalizzata a capire se l’ipovitaminosi D sia un effetto del Covid-19 o se sia una precondizione che rende le persone più soggette ad essere colpite dall’infezione. “La vitamina D – sottolinea Giustina – potrebbe avere un ruolo soprattutto in ambito di prevenzione del Covid-19, come recenti metanalisi rilevano per altre infezioni respiratorie, mentre il suo impiego in ambito terapeutico in associazione ad antinfiammatori e antivirali è in fase di studio e con dati preliminari non univoci”.
Tra gli argomenti che verranno affrontati dagli esperti, la preparazione di linee guida, attese entro fine anno, dedicate alla supplementazione della vitamina D in soggetti obesi o diabetici che si sottopongono ad interventi di chirurgia bariatrica. “Questo argomento – conclude il primario di endocrinologia del San Raffaele di Milano – è importante sia perché ad oggi non esistono indicazioni scientifiche in merito sia perché gli interventi di chirurgia bariatrica antiobesità, sono progressivamente aumentati di numero negli ultimi anni”.