(Adnkronos) – “Che non si amassero, già prima, era più che un sospetto, quasi una certezza. Il fatto è che Conte considera Draghi un usurpatore, e non ne fa mistero. E che Draghi a sua volta considera Conte un Azzeccagarbugli, anche se non lo dice. La diplomazia non basta a venarne i giudizi reciproci e l’avvicinarsi della fine della legislatura non concorre all’armonia. Resta il fatto che essi fanno parte della stessa maggioranza, e così la loro controversia finisce per diventare qualcosa di più e di diverso da una avversione personale e politica. Come se le storie, i caratteri, le affinità e le differenze da un certo punto in avanti diventassero materia politica incandescente. Trovando lì la loro spiegazione ma anche il loro limite invalicabile.
Ora, molto probabilmente finirà per non accadere nulla, e infine si dirà appunto che nulla è accaduto. Prima o poi si parleranno, e la logica delle cose – che ha sempre una sua inesorabilità – porterà ad archiviare la disputa di questi giorni più convulsi. Infatti il litigio in politica ha sempre un suo codice, e magari converrà a tutti riportare le cose dentro quel perimetro.
Così insegna, peraltro, tutta la storia repubblicana. Saragat e Nenni non si amavano, eppure un’estate si arrampicarono in un paesino dell’alta Savoia, facendo mostra di essere in vacanza insieme, per gettare le basi dell’unificazione socialista. E negli anni settanta Giorgio Amendola, a cui era stato proposto di fare il presidente della Camera, pensò bene di indicare per quell’incarico, a cui non si sentiva vocato, il suo più diretto antagonista nelle file del Pci, Pietro Ingrao. Esempi, tra tanti, dell’intreccio tra amicizie e rivalità. Gli esempi potrebbero essere infiniti, e gli esiti i più diversi. Il fatto è che la vita dei partiti e delle coalizioni è sempre stata un’altalena tra accordi e tensioni, un continuo vai e vieni lungo percorsi nei quali i leader hanno dovuto dispiegare una grande pazienza e tenere a freno i loro grandi (a volte smisurati) caratteri.
Tra le figure politiche di quegli anni c’era forse, paradossalmente, una maggiore affinità a guidarli lungo il sentiero scosceso della loro controversie e rappacificazioni. Li dividevano le ideologie, certo. E però li univa un percorso di formazione che non era poi così diverso, alle più svariate latitudini dell’epoca. Mentre nel caso di Draghi e Conte si avverte qualcosa di più della differenza di idee. Nessuno dei due ha mai rivelato per chi avesse votato prima del 2018 -anche se in uno dei due casi non mancano tracce delle frequentazioni passate. Per il resto, tutto sembra concorrere ad allontanarli. Uno si offre come un tecnocrate, sia pure ingentilito dalla consapevolezza che può perfino esistere un debito “buono”. L’altro è alfiere del populismo, e come tale si è presentato fin dal suo primo intervento parlamentare. Uno sta saldamente attestato lungo la rotta atlantista ed europeista, l’altro ha frequentazioni più variegate, fantasiose e impreviste, che spaziano da Trump ai quadri della nomenklatura che fu comunista. Uno frequenta più i numeri, l’altro frequenta più le parole. Ma soprattutto uno deve far funzionare la macchina del governo e l’altro si propone piuttosto di dimostrare che quella macchina può camminare solo a patto di passare ogni tanto dalle sue parti a chiedere indicazioni.
Pretendere che vadano d’amore e d’accordo sarebbe un po’ troppo. Resta il fatto che nessuno dei due sembra avere interesse a litigare più di tanto. Non perché si possa espungere il litigio dalla contesa politica. Ma perché c’è sempre modo e modo di litigare. E forse c’è anche un tempo in cui il litigio è precluso.
Chi fa politica, per sua natura, non è mai una figura irenica, dedita alla contemplazione armoniosa del cosmo e del prossimo. E certe dispute sono solo la sottolineatura di passioni politiche che si alimentano delle loro stesse differenze. Per questo sarebbe ingenuo un appello alla pace perpetua tra i soci di una maggioranza che si disgregherà comunque di qui a pochi mesi. Resta il fatto che per dar fuoco alle polveri occorre calibrare bene il momento. E che il momento non è davvero questo”.
(di Marco Follini)