(Adnkronos) – “Oggi i boss mafiosi hanno messo in campo una strategia per orientare ancora una volta la politica e la legislazione antimafia, come accaduto nel passato. In Sicilia la comunità sta pagando un prezzo altissimo: sono stati uccisi otto giornalisti che avevano detto no alla narrazione dei boss. La criminalità organizzata tenta attraverso i social di orientare la politica per mettere fine al 41-bis e all’ergastolo”. Così, a margine all’evento ‘Le mafie ai tempi dei social’, organizzato dalla Fondazione Magna Grecia, in partnership con il Gruppo Pubbliemme, Diemmecom, LaC Network, ViaCondotti21 e l’università Luiss Guido Carli, Salvo Palazzolo, saggista e giornalista de La Repubblica.
“I social sono un elemento fondamentale nella comunicazione e nella autorappresentazione del modo in cui le mafie sono passate dalla civiltà industriale a quella digitale- gli risponde Marcello Ravveduto, docente dell’università di Salerno – . Gli appartenenti alle organizzazioni mafiose sono diventati una ‘google generation criminale’. Non esiste il mafioso che utilizza i social, ma esiste l’utente che appartiene alle dinamiche del mondo mafioso e crea contenuti per Instagram, Youtube e TikTok”.
“Parlare di mafia vuol dire parlare di comunicazione, di digitale, di criptovalute. Non si può considerare il mondo digitale come qualcosa di estraneo al concetto di mafia perché, proprio attraverso i social network, oggi le organizzazioni criminali mandano messaggi e costruiscono consenso. Le mafie vanno viste come fenomeni della modernità e quindi capirle significa analizzarle al di là dei pregiudizi e dei luoghi comuni”. Così Antonio Nicaso, docente della Queen’s University e storico delle mafie.
“Tutti gli strumenti informatici sono come un coltello senza manico: in base a come lo prendi ti puoi tagliare o puoi uccidere. Questo ricalca quello che fanno le organizzazioni criminali: utilizzano gli stessi strumenti che noi abbiamo attivato per far progredire la società, per trasformare le attività illegali in beni leciti”. Queste le parole di Antonello Colosimo, consigliere della Corte dei Conti, già vice alto commissario vicario per la Lotta alla Contraffazione.