“Il referendum promette/minaccia di essere il prossimo primattore sulla scena politica italiana. Sono già state raccolte le firme per un nutrito grappolo di quesiti sulla giustizia, per la legalizzazione della droga leggera, perfino per il diritto all’eutanasia. Per non dire del progetto -lunare- di promuovere una consultazione sul green pass. Per giunta, con l’escamotage della firma digitale, la raccolta delle adesioni dei cittadini sembra quasi diventata una passeggiata su di un letto di rose, e dunque molte altre consultazioni sono già per così dire dietro l’angolo.
Per metà si tratta, appunto, di una promessa. Quella di una democrazia in presa diretta, sottratta alle lungaggini della vita parlamentare, alla fatica dei compromessi politici, a tutte le cose che non vanno più di moda: procedure, elaborazioni, sottigliezze, complessità. Con il referendum tutto si racchiude in un sì o in un no, e l’esito ne viene scolpito con nettezza, senza equivoci e tortuosità, in tempo reale.
Ma la promessa, a sua volta, racchiude una minaccia. E cioè che a forza di plebisciti la nostra democrazia si riduca alla sua emotività, dando vita ad un’arena nella quale esiste solo il combattimento frontale e si perde la buona abitudine di cercare di comprendersi, di aggiustare le cose, di limare i provvedimenti. Insomma tutto quel lavorìo che dà un senso alla rappresentanza e, tout court, alla fatica politica.
Tra le due forme della democrazia -quella rappresentativa e quella diretta- esiste una dialettica che dura fin dai tempi dell’antica Atene. Da un lato infatti c’è l’idea che si debba procedere per gradi, passo dopo passo, delegando alle istituzioni il maggior potere decisionale e collocando quel potere all’interno di un sistema di garanzie e contrappesi. D’altro invece c’è l’idea che il popolo debba decidere in presa diretta, senza troppe mediazioni, evitando di delegare le cose al ceto politico. Questione più complessa di così, ovviamente. E che diventa ancora più complessa e intricata ora che viene a mescolarsi con l’onda populista e con la critica radicale che si leva da tanta parte della pubblica opinione contro ogni forma di professionismo politico.
Insomma è evidente che la democrazia referendaria in questo momento ha il vento in poppa, e che l’idea di renderle la vita più difficile facendo ricorso a qualche artificio rischia di avere il fiato corto. Si tratta di capire però dove porta quel vento e se sia il caso di mettersene almeno un po’ al riparo. Così, sarebbe giusto elevare la soglia delle firme richieste, dato che quella attuale (500 mila) si raggiunge in quattro e quattr’otto. E sarebbe corretto ricordare che nel nostro ordinamento il referendum è solo abrogativo e non può riguardare materie troppo delicate (le tasse, i trattati internazionali). Ma al tempo stesso sarebbe assai poco realistico non fare i conti con una domanda di partecipazione popolare che passa anche da quel pertugio, ampliato a suo tempo dalla passione civile di Marco Pannella e diventato ai giorni nostri una voragine che nessuna predica dall’alto sembra in grado di colmare.
Prepariamoci insomma ad affrontare una lunga e fitta stagione referendaria. Cerchiamo di farlo con spirito critico, come è giusto che sia. E con spirito aperto, come conviene che si faccia. Sarà il caso di ricordare che alle volte l’esito di un referendum si capovolge in corso d’opera. Ad esempio, una ventina d’anni fa si votò contro il nucleare, e ora ne discutiamo nuovamente perché nel frattempo quella tecnologia è cambiata da cima a fondo e dunque scopriamo oggi di esserci pronunciati su qualcosa che non c’è più, o almeno non è più al modo di prima. Ma sarà almeno altrettanto doveroso fare i conti con una domanda popolare scomoda e irrequieta che però nasconde una curiosità civile e politica di cui il paese ha un gran bisogno. Tanto più oggi.
Si tratta solo di trovare la misura giusta. Cosa che in politica è sempre tra le più difficili”. (di Marco Follini)