Vaccino covid: terza dose sì, terza dose no. Il dibattito sulla necessità o meno di un ‘booster’ per i vaccinati contro Covid-19 è attualmente prematuro e mal posto secondo l’internista Nino Mazzone, direttore del Dipartimento di Area medica, Cronicità e Continuità assistenziale dell’Asst Ovest Milanese, ospedale Civile di Legnano. Fra i sanitari italiani contagiati durante la seconda ondata pandemica (nel novembre 2020 si ritrovò ricoverato dalla sera alla mattina nel reparto che dirige), Mazzone è “fresco di prima dose alla quale mi sono sottoposto secondo indicazioni ministeriali”. Ma all’Adnkronos Salute anticipa un accorato appello alle istituzioni: “Si possono sapere i tassi di reinfezione dei vaccinati per confrontarli con quelli degli ex pazienti Covid? Solo dopo – sostiene – potremmo discutere di terza dose”.
“Prima di parlarne – spiega l’esperto, vice presidente Fism (Federazione società medico-scientifiche italiane) – è utile conoscere i dati a un anno di quante persone vaccinate che non avevano fatto l’infezione da Sars-CoV-2 si contagiano. Ci vuole chiarezza nel confrontare l’immunità naturale”, quella ottenuta superando la malattia, “e l’immunità acquisita” attraverso la vaccinazione. “Questo dato, che ancora non viene prodotto, è invece fondamentale – ammonisce il medico – per poter decidere una strategia che dovrà essere pianificata a livello mondiale”. Perché “qualora i tassi” di infezione di guariti e immunizzati “fossero simili, si potrebbero risparmiare milioni di dosi vaccinali”. Qualcosa come “300 milioni”, stima Mazzone, da donare “per la popolazione più vulnerabile di tutto il mondo” o comunque utili ad “accelerare enormemente la vaccinazione delle categorie che più ne hanno bisogno”.
“Anche alla luce della variante Delta” del nuovo coronavirus, diventata ormai dominante nel nostro Paese, per lo specialista “la risposta a pochi semplici quesiti (infetta i vaccinati, e quanto? Infetta i guariti, e quanto?) sarà fondamentale per poter impostare politiche di qualità basate su una metodologia scientifica”.
Mazzone ci tiene come prima cosa a “sgombrare il campo da ogni equivoco”, confermando che “oggi due cose appaiono fondamentali” e cioè “vaccinare tutti quelli che ne hanno bisogno” e “usare il Green pass per frequentare i luoghi chiusi, compresi bar e ristoranti”. Ciò premesso, sulla terza dose l’internista che ha vestito sia il camice sia il pigiama invita alla “prudenza”. La stessa che a suo avviso avrebbe dovuto portare già in prima battuta ad “aspettare a vaccinare i pazienti che hanno avuto il Covid. Si sarebbe potuto fare l’esame sierologico agli esposti – ragiona – e si sarebbero risparmiati milioni di dosi e possibili effetti collaterali”.
Il medico poggia la sua riflessione su fondamenta solide: una pubblicazione firmata a fine maggio su ‘Jama Internal Medicine’, dove è apparsa corredata da un commento di Mitchell H. Katz della New York Medical School, nel board degli editor della rivista dell’American Medical Association. “La probabilità di reinfezione per un guarito da Covid-19 è dello 0,07% a un anno”, concludevano nel paper Mazzone e colleghi, tra i quali anche il presidente dell’Associazione microbiologi clinici italiani (Amcli), Pierangelo Clerici. Più precisamente, “l’incidenza di infezione da Sars-CoV-2 per 100mila residenti era di 1 per le persone che già l’avevano contratta e di 15,1 per quelle che non l’avevano mai avuta: una differenza drammatica”.
Risultati, quelli del team legnanese, in linea con i dati di diversi altri studi. “Ci sono vari lavori pubblicati sulle più importanti riviste scientifiche, da ‘Nature’ a ‘The Lancet’ a ‘Nejm’ – ricorda Mazzone – che dimostrano come l’immunità a lungo termine dei guariti sia una realtà, con anticorpi tracciabili anche dopo 12 mesi”. Per esempio, “lo studio Siren su Lancet ha affrontato le relazioni tra la sieropositività nelle persone con precedente infezione Covid e il rischio di sindrome respiratoria acuta grave dovuta a reinfezione nei successivi 7-12 mesi. Ebbene, l’infezione precedente ha ridotto il rischio di reinfezione sintomatica del 93%”.
Ancora, “un ampio studio di coorte pubblicato su Jama Internal Medicine ha esaminato 3,2 milioni di pazienti statunitensi e ha mostrato che il rischio di infezione era significativamente più basso (0,3%) nei pazienti sieropositivi ad anticorpi anti Sars-CoV-2 rispetto a quelli sieronegativi (3%)”. Infine, “forse ancora più importante, un recente studio indica la presenza di cellule immunitarie della memoria a lunga vita in coloro che si sono ripresi da Covid-19. Ciò implica una capacità duratura, forse lunga anni, di rispondere a una nuova infezione con nuovi anticorpi”.
“E’ chiaro che l’immunità indotta da una precedente infezione da Sars-CoV-2 è più instabile rispetto all’immunità indotta da vaccino, ma a noi – chiarisce l’internista – interessano le vere differenze cliniche tra chi ha l’immunità naturale e chi quella acquisita: tasso di reinfezione, ospedalizzazione, gravità dei sintomi, accessi in terapia intensiva. Questi – insiste Mazzone – sono i dati di confronto fra immunità naturale e acquisita che servono per poter scegliere le strategie vaccinali più giuste”.
Il problema rilevato dall’esperto è che al momento, “in contrasto con questi dati obiettivi di medicina basata su evidenze scientifiche, che dimostrano una protezione adeguata e duratura in coloro che si sono ammalati di Covid-19” e l’hanno superata, “la durata dell’immunità indotta dal vaccino non è completamente nota. Finora sono state segnalate dai Cdc americani oltre 10mila infezioni contratte trascorse almeno 2 settimane dal completamento della vaccinazione, con una mortalità del 2% circa. Un tasso di incidenza importante” che – associato al recente monito lanciato dall’immunologo della Casa Bianca Antony Fauci, che “circa il 20% dei vaccinati si può reinfettare” – rende “mandatorio” secondo Mazzone “confrontare i dati veri di immunità naturale e immunità acquisita”.
Numeri da usare poi per “supportare con le evidenze scientifiche” quelli che allo specialista già appaiono “concetti semplici e logici”. Da un lato, “l’obiettivo della vaccinazione è generare cellule di memoria in grado di riconoscere il virus Sars-CoV-2 e di produrre rapidamente anticorpi neutralizzanti che prevengano o mitigano sia l’infezione che la trasmissione”. Dall’altro, “coloro che sono sopravvissuti al Covid devono quasi per definizione aver allestito una risposta immunitaria efficace, come dimostrano gli studi sopra citati”. Ecco perché, “a nostro avviso – ribadisce Mazzone – le persone per cui è stata confermata un’infezione da Sars-CoV-2 potrebbero non aver bisogno di vaccinazione e non hanno bisogno di vaccinazione a breve termine”. E “considerato il numero di persone che si sono contagiate, si potrebbero liberare centinaia di milioni di dosi” da rimettere ‘su piazza’ per provare a centrare un obiettivo ineludibile: vaccinare chiunque debba essere vaccinato, ovunque nel mondo.