(Adnkronos) – “Tornato in Italia dall’Ucraina ho preso il treno per tornare nella città in cui vivo, Trieste, che passa lungo la costa a picco sul mare e mi fa vedere uno splendido panorama. Chiudo gli occhi e mi tornano in mente i momenti più drammatici del reportage, poi li riapro e penso quanto siamo fortunati a vivere in pace da 70 anni. Purtroppo, una fortuna fragile, troppo fragile. Ora infatti bisogna dire quanto fortunati ‘eravamo’, perché la guerra è nel cuore dell’Europa, ed io continuo a temere che questa guerra possa allargarsi, e che possa coinvolgerci direttamente”. Sono le impressioni a caldo che regala all’Adnkronos Fausto Biloslavo, l’inviato in Ucraina per conto di Mediaset e Il Giornale, appena rientrato in Italia dopo due mesi di guerra ed ora in viaggio verso casa.
“L’Italia ora è un Paese in cui potremmo trovarci in conflitto da un momento all’altro per via dell’articolo 5 della Nato -dice senza mezzi termini Biloslavo- perché se qualche struttura della Nato viene colpita, automaticamente siamo in guerra”. Il cronista, che ha una lunga esperienza di reportage di guerra, non fa mistero della sua opinione sull’atteggiamento del governo italiano e dell’Europa riguardo al conflitto: “La mia opinione, prima di tutto, è che non possiamo abbandonare gli ucraini -ci tiene a chiarire- Ci chiedono armi perché devono riconquistare terreno, perché fino adesso hanno riconquistato il terreno che i russi hanno abbandonato ma devono riconquistare altro terreno e difendere altri territori, come Odessa e Kharkiv, la seconda città del Paese, e non possiamo abbandonarli davanti ad un’invasione”.
Però “in egual maniera siamo molto latenti, carenti, direi colpevoli, sul fatto che abbiamo dimenticato, più o meno volutamente, la via negoziale, la trattativa. All’inizio sembrava che si incontrassero e fossero già ad un certo punto, poi è sparito tutto”. E sulla visita del segretario dell’Onu Guterres a Putin, Biloslavo è tranchant: “Io l’ho definito ‘lumaca’, perché dopo due mesi è arrivato appena a Mosca, di questo passo ci metterà altri vent’anni per trovare una soluzione, quindi è del tutto inutile”, dice. E suggerisce altre strade: “Forse bisognerebbe puntare sulla vecchia strada, quindi un membro della Nato che pur io non amo, il sultano Erdogan della Turchia -osserva- Oppure una completa nuova mediazione di peso e di grande valore simbolico come il Papa. Perché questa guerra deve essere fermata prima che diventi mondiale”.
Il rischio di una terza guerra mondiale “non lo vedo troppo lontano. Vedo lontano un conflitto nucleare, che ovviamente sarebbe la fine di tutto e di tutti, ma un allargamento è già nei fatti. Basta vedere la Transnistria, la Moldova, la stessa Polonia con l’arma del gas. E soprattutto con quello che dice Putin, dal suo punto di vista giustamente: ‘ok, mandate le armi? E noi vi colpiremo, e colpiremo queste armi'”. Insomma, “se la diplomazia va alla velocità di una lumaca, invece l’allargamento militare sul terreno è purtroppo drammaticamente veloce”.
Sul treno per casa, Biloslavo ha immagini forti, che non dimenticherà. “Sono immagini militari -dice all’Adnkronos- Ho scoperto che i militari ucraini in Donbass
mi avevano soprannominato ‘samurai’. Probabilmente perché ci siamo trovati assieme a questo reparto, a Severodonetsk, inchiodati per due ore in una loro base con un drone che puntava su di noi. Fumo, feriti, momenti drammatici. Devono aver notato come riprendevo e con calma raccontavo questa drammatica storia che ci accomunava”. Come drammatici “sono stati i momenti a Popasna, il punto più caldo del fronte,
quando i militari si scrivevano sulla mimetica con il pennarello indelebile il loro cognome, sulle gambe e sulle braccia, perché se venivano spappolati da una granata potevano magari in questo modo essere riconoscibili per i familiari. E quelli che dovevano uscire per andare in trincea, davanti ai russi, tiravano la monetina a sorte per i primi cinque, perché erano i ‘morituri'”.
Nel cuore, sopra ogni cosa, Biloslavo ha però “la strage di Kramatorsk, quando mi sono trovato davanti ad un peluche intriso di sangue di un bambino o di una bambina che era stata spazzato via colpito dalle bombe a grappolo. Io raramente io dico ‘Mio Dio’. Ho detto ‘mio Dio’ pensando al proprietario o alla proprietaria di questo piccolo peluche, che ora non c’è più”.
(di Ilaria Floris)