(Adnkronos) – Il calendario che si riavvolge al 24 febbraio, la sveglia che arriva dal suono delle esplosioni, la ”valigia dell’ansia” pronta con documenti e soldi, la corsa giù per le scale per raggiungere il rifugio più vicino. Ma quello che è cambiato, rispetto a sette mesi e mezzo fa a Kiev, è che la paura ha lasciato il posto alla rabbia. Lo racconta ad Adnkronos Iryna Guley, reporter ucraina del canale televisivo 1+1, al riparo in un rifugio di Kiev riservato ai giornalisti e dove da questa mattina si trova insieme a un centinaio di persone. ”Non abbiamo paura – dice – sto abbastanza bene. Ho sentito diverse esplosioni oggi, hanno colpito il centro della città, vicino all’università dove ho studiato. Hanno colpito i musei dove sono conservati quadri preziosi, il parco giochi, il centro della città. Ho visto i crateri nelle strade, enormi buchi nel parco più famoso della capitale”. Danni, che ”non sappiamo ancora valutare”, causati da missili lanciati da Mosca in quella che sembra essere una rappresaglia per l’attacco al ponte di Kerch in Crimea. ”Sì, sembrerebbe una rappresaglia. Ma in realtà non dipende da questo – afferma Guley -. E’ in realtà l’espressione di un’agonia, di chi decide di compiere atti terroristi contro i civili perché sul fronte non riesce ad andare avanti, a respingere la controffensiva ucraina”.
In un altro rifugio, sempre a Kiev, si trova sua mamma, che nei mesi scorsi Iryna aveva portato da Odessa alla capitale per garantirle maggiore sicurezza. ”Mia mamma sta in un altro rifugio a Kiev, sta bene. Con lei ci sono decine di persone. Mio padre è rimasto a Odessa, sta bene anche lui anche se hanno bombardato anche lì”, spiega. ”Nelle metropolitane, che oggi si sono trasformate in rifugi, c’è gente che canta e che suona l’inno di Kiev, l’inno dell’Ucraina”, aggiunge. Iryna è tornata a Kiev dopo che la situazione nella capitale si era stabilizzata. Dopo il primo attacco del 24 febbraio, dopo i missili delle 5.30 sulla capitale, era stata trasferita dal direttore del canale 1+1 in una località segreta, dove ha vissuto mesi in clandestinità per permettere alla sua emittente di continuare a trasmettere 24 ore su 24.
”La sensazione di oggi è diversa rispetto a quella del 24 febbraio, quando ero spaventata e disorientata, non sapevo cosa fare. Uguali, invece, sono state le mie azioni. Ho preso la borsa di sicurezza, i documenti, i soldi. Oggi, a differenza di allora, so esattamente cosa fare e dove andare”, spiega. E oggi, a differenza di sette mesi fa, ”non sento paura, sento solo la rabbia”. Rabbia per gli attacchi russi, ma anche per ”quel mondo moderno che permette a un pazzo di fare quello che vuole, mentre dovrebbe andare in prigione o morire”. La giornalista ucraina, originaria di un piccolo villaggio che era filo-russo vicino a Odessa, non nomina mai direttamente il presidente russo Vladimir Putin. ”Come fa, il mondo moderno, a dire di non voler parlare con un uomo che è un assassino, uno stupratore, un ladro? Con i pazzi non si parla. Quali rapporti si possono avere?”, si chiede. ”Per noi è una questione di sopravvivenza, per lui una questione di ambizione. Non si fermerà mai fino a quando il popolo ucraino non sarà distrutto o annesso completamente alla Russia. Per questo va fermato”, conclude.